Intervista YMW: Lorenzo Santangelo, canzoni in fuga dall’Italia all’Australia…
Al giorno d’oggi, è ancora possibile per un giovane italiano avere successo nel mondo della musica partendo dal basso e contando solo sulle proprie forze? Sicuramente ci spera Lorenzo Santangelo ragazzo romano di quasi 28 anni che, nonostante un’avversione per i compromessi (oltre che per i talent show) e una vita ricostruita quasi da zero in Australia, ci crede ancora e ci sta provando. E’infatti uscito il 1° aprile, in formato digitale, il suo primo EP, “Canzoni in fuga” (disponibile su Spotify ed acquistabile su iTunes, Google Play ed Amazon), un lavoro che segue il filone delcantautorato italiano, ma con influenze moderne. Proprio su Amazon, peraltro, “Canzoni in fuga” è stato in testa a tutte le classifiche di musica digitale per due giorni e ha resistito nella top ten per addirittura una settimana: grandi risultati se si considera i mezzi con cui l’album è stato prodotto.
L’uscita dell’EP mi ha quindi dato l’opportunità di fare qualche domanda a Lorenzo, in un’intervista che oscilla tra realismo e sogni di gloria.
Qual è la tua formazione musicale?
Ho iniziato a studiare pianoforte quando avevo quattro anni. Andavo all’asilo e l’insegnante notò
che, quando ci faceva cantare le canzoncine, io, invece di unirmi agli altri, me ne andavo in
disparte con una minuscola tastierina elettronica e rifacevo ad orecchio quelle semplici melodie: fu
lei la prima ad accorgersi che “ero portato” e lo segnalò a mia madre. La maestra stessa, poi, ci
presentò un’insegnante (una grande concertista), la quale, pur non essendo solita prendere allievi
così piccoli, con me fece volentieri un’eccezione. Iniziò così un lungo periodo di duro studio, che mi
portò a dodici anni ad entrare al conservatorio di Santa Cecilia di Roma, diciassettesimo nella
graduatoria dell’esame di ammissione tra oltre trecento candidati provenienti da tutto il mondo. Ad
ogni modo, intorno ai quindici anni dovetti lasciare il conservatorio, a causa di strane vicende che
portarono al commissariamento della struttura e a vari arresti. Purtroppo nello stesso periodo
cominciarono gravi problemi familiari ed economici, quindi fui costretto ad abbandonare anche lo
studio del pianoforte, visto che dovetti iniziare a dividermi tra scuola e lavoro pomeridiano. Questo
mi fece sviluppare in brevissimo tempo la passione per la scrittura di canzoni: per questo motivo,
ed anche per dare un’impronta più moderna ai miei brani, in quel periodo imparai a suonare la
chitarra da autodidatta.
Quali sono invece le tue influenze musicali e quali hanno inciso maggiormente nei quattro
pezzi?
Nella mia vita ho ascoltato veramente ogni genere musicale: rock e hard rock di tutte le epoche,
metal, blues, ma anche rap. Sono i cantautori italiani però ad aver inciso più di tutti sulla mia
formazione, sia come ascolti, sia come composizione: Rino Gaetano, Francesco Guccini e
tantissimi altri, popolari e non, “vecchi” e più recenti.
Per quanto riguarda le canzoni dell’EP, bisogna sottolineare che sono state scritte in periodi
diversi. “Vorrei di più” è la più vecchia, figlia del periodo blues/hard rock ed è un tipo di canzone
che oggi non scriverei.
“E’ tutto vero” è del 2010 ed è ispirata a un tipo di musica che andava molto forte in Italia negli
anni ’90 e che in quel periodo stava rivivendo un buon successo grazie soprattutto a Fabrizio
Moro, uno dei cantautori che stimo di più. Per la metrica mi sono tornati utili gli ascolti rap,
mentre l’arrangiamento l’ho pensato più rock.
“Canzone di merda” e “L’affitto” sono le più recenti e sono senza dubbio quelle che rappresentano
maggiormente la direzione che voglio intraprendere. Con loro sono tornato a quel Gaetano che
ascoltavo in cassetta a sette/otto anni e che non ho mai abbandonato. Con “Canzone di merda”
sono riuscito finalmente a dare sfogo a quello che sono anche nella vita reale: è un pezzo
estremamente ironico ma anche dal profondo significato, che è poi l’estrema sintesi di tutta la
produzione di Rino.
Con “L’affitto”, invece, ho voluto essere un po’ ermetico e lasciare più di una interpretazione agli
ascoltatori, tant’è che credo non tutti abbiano capito esattamente l’intento originale. Ma va
benissimo così: De Gregori, tanto per citare un altro mostro sacro, ci ha costruito l’intera carriera.
Pensi che andartene dall’Italia abbia in qualche modo incoraggiato o favorito la decisione da
parte tua di registrare e pubblicare “Canzoni in fuga”? Se sì, in che modo?
Sì, sicuramente. Sono andato via dall’Italia anche a causa di svariate delusioni artistiche: avevo
deciso di passare alle “cose serie” e di farmi una vita lontano dalla musica. In Australia, durante i
primi tempi, ho faticato tanto, sotto tutti i punti di vista. Poi, dopo tanti mesi di duro lavoro, ho
ricominciato a fare quello che ho sempre fatto, ossia rifugiarmi nella musica nei momenti difficili.
Ma vivere in Australia mi ha catapultato in una vita quasi parallela. Ho faticato e fatico ancora ad
apprezzare la cultura australiana, nonostante la qualità della vita sia ottima. Lavoro talmente tanto
che c’è poco tempo per coltivare amicizie vere, senza contare che le amicizie che hai nel tuo Paese
di origine spesso sono ventennali e in due anni in un altro Paese non può essere uguale. Tutto ciò
mi fa vivere questa esperienza come una sorta di parentesi, pur avendomi consentito di migliorare
la mia situazione e di accrescere il mio bagaglio personale. Da questo “stato di parallelismo” tra
vita italiana, per ora congelata, e vita australiana, ho cambiato idea sulla musica: prima volevo
smettere, adesso penso di poter coltivare le mie idee musicali a parte, dando luce a qualche
progetto ogni tanto, anche se poi per vivere faccio tutt’altro. Da ragazzo pensavo: o Bruce
Springsteen o niente, o la star o il muratore. Ora no. Ora credo che non c’è bisogno di diventare il
Boss a tutti i costi, come non è detto che non possa realizzarmi anche lavorativamente. Intanto
continuo a fare la mia vita, della quale sono pienamente soddisfatto, e parallelamente coltivo la
passione della musica con qualche progetto qua e là. Se si riuscirà a fare qualcosa di buono
meglio, altrimenti va bene così.
Quanto è stato difficile, soprattutto in termini di tempo e mezzi a disposizione, registrare e
iniziare a diffondere l’EP?
Non è stato facile. Ho registrato l’EP durante le vacanze di Natale trascorse in Italia: sono andato
qualche giorno in Toscana dal mio amico Riccardo Cherubini, gran musicista ed ora anche
produttore, e abbiamo lavorato al frenetico ritmo di una canzone al giorno, con budget a zero.
Dopo, con calma, si è lavorato al missaggio e all’equalizzazione, ma anche quello non è stato facile
dovendoci inviare i file tra l’Italia e l’Australia. Non è esattamente come sedersi in studio e
scambiarsi idee nell’immediato, discutere, provare.
Per quanto riguarda la diffusione, ce la stiamo mettendo tutta: le canzoni sono ovunque sul web e
abbiamo addirittura girato un video, anche quello con zero soldi, chiedendo favori ad amici. Ma
arrivare a tanta gente non è facile. Il mio nome è pressoché sconosciuto, l’etichetta è piccola e
appena nata, amici importanti non ne abbiamo, e soprattutto non siamo disposti a qualsiasi cosa
per farci ascoltare. In più, il fatto di vivere dall’altra parte del mondo non può essere che deleterio,
dal momento che non posso fare live e promuovere l’EP come si dovrebbe.
Come mai la scelta (al giorno d’oggi coraggiosa, a mio parere, se si cerca di emergere
partendo da zero) di scrivere in italiano?
Per me esprimermi totalmente nei testi è fondamentale; sono sempre alla ricerca di un’evoluzione
in tal senso, di un gioco di parole, di un verso profondo oppure terribilmente irriverente, di un’idea
nuova: pur parlando bene inglese, non riuscirei mai ad esprimermi pienamente come faccio in
italiano. Poi, in linea di massima, reputo i testi in inglese più banali dei nostri. Ho pensato più
volte di fare versioni in inglese di queste canzoni, perché in fondo sarebbe stata un’opportunità in
più, ma poi non ci ho mai nemmeno provato.
Visti anche i tuoi cantautori di riferimento, nei tuoi testi ti piace inserire versi paradossali o,
comunque, più o meno velatamente sarcastici e “Canzone di merda” ne è un chiaro esempio:
alla luce di ciò, cosa vuol dire per te “dimostrare che si può far successo partendo dal basso”?
Tra i tanti giochi che faccio in quel testo, quello è il più ricercato dato che gli si può attribuire
addirittura un triplo senso. Tutto sta sui molteplici significati della parola “basso”. Il primo senso
si può intendere più letteralmente, come “uno che si è fatto da solo”, senza appoggi altolocati,
facendo la gavetta. Il secondo è meno nobile e si lega al titolo della canzone e all’altro gioco di
parole, molto più scontato, tra “successo” e “sul cesso”: fa dunque riferimento alla parte bassa
del corpo e alla creazione di una “Canzone di merda”, appunto. Il terzo invece è musicale, dove
“basso” sta per lo strumento, tant’è che proprio mentre canto “basso” si possono sentire quattro
note di basso ben rimarcate.
“E’ tutto vero”, invece, è una sorta di grido generazionale di denuncia degli attuali
ventenni/quasi trentenni, in bilico tra futili comodità e problemi molto più grandi di loro ai
quali nessuno sembra saper trovare un’adeguata soluzione: la colpa maggiore sta nella cattiva
eredità lasciataci da chi ci ha preceduto o nel nostro immobilismo?
Ho scritto “È tutto vero” a ventidue anni, ma devo dire che penso ancora quelle cose e anzi, come
dici tu, quel testo è molto più collocabile alla mia attuale età che non a quella. C’è tutta la
frustrazione per essere capitati in un’epoca disastrata da errori passati, “con i debiti già dentro le
culle, con i lividi a pelle senza aver fatto a botte”, con la sensazione spiacevole di dover entrare a
partita in corso con la tua squadra sotto di tre gol e in nove contro undici. E, proprio come quel
giocatore, non ci sentiamo responsabili più di tanto: questo crea attenuanti che sì, ci sono, ma non
dovrebbero giustificare l’immobilismo di cui parli, perché purtroppo (anzi, per fortuna) in gioco
non c’è una partita di calcio ma la nostra vita. La canzone, pur tendendo a dare la colpa a chi ci ha
preceduto, cerca di fotografare questa complicata situazione più che accusare o trovare soluzioni.
Però almeno su un punto cerco veramente di discolpare la nostra generazione polemizzando con i
nostri nonni, quando canto “mio nonno è stato in guerra ed è tornato senza un dito e la mia colpa è
non esser mutilato, la mia croce non essermi ammazzato”, perché siamo cresciuti un po’ con la
stupida idea che loro fossero meglio di noi perché avevano fatto la guerra, la fame e, pur senza
aver studiato, erano riusciti a fare sette figli e una casa, come se fosse una colpa per noi non aver
fatto la guerra o aver studiato di più. In generale mi sarebbe piaciuta più generosità, del tipo “sono
contento di aver fatto qualcosa che ha migliorato la tua vita rispetto alla mia” invece di “tanto sei
solo uno scemo viziato”. Il rispetto va bene, ma questa sorta di timore reverenziale che spesso tende
a distruggere l’autostima no. Comunque sulle battute finali c’è una frase che riassume bene il
significato di tutta la canzone, ovvero “siamo specchi rotti di tempi sbagliati”. Sì, come uno
specchio riflettiamo tempi che sono sbagliati per colpe non nostre, ma noi siamo rotti, guasti, o
quanto meno difettosi. Pigri forse. Ma, rispondendo alla tua domanda, credo che al 55% sia colpa
di chi ci ha preceduto e al 45% della nostra generazionale incapacità di reagire.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
È una domanda complicata. Non so ancora quanto starò in Australia e comunque, qualora volessi
andarmene di qui un giorno, non sono sicuro di tornare subito in Italia: mi affascina l’idea di
continuare a vedere il mondo non come turista, ma vivendo in altri Paesi per un po’. Musicalmente
mi piacerebbe molto dare seguito a “Canzoni in fuga”, magari rendendolo un album. Di certo
continuerò a sviluppare quest’essenza parallela di cantautore, ma non so ancora come. Non ti
nascondo di sognare ancora di tornare in Italia e potermi costruire un nome come cantautore,
seppur piccolo piccolo, per poter continuare a condividere le mie canzoni con qualcuno. Non è
facile, ma io ci provo. Staremo a vedere.
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