Gilmour ha incantato il Circo Massimo, in pochi lo sanno.
È passato quasi un mese dal concerto di David Gilmour a Roma, ma è giusto parlarne.
È difficile che al telegiornale facciano servizi su concerti, a meno che non siano particolarmente importanti, anche se a volte ci raccontano di Ligabue e Vasco Rossi quando nello stesso periodo ci sarebbero artisti molto più qualificati di cui parlare. Per questo motivo, non mi sono stupita più di tanto se non è apparso nessun servizio, ma quando ho visto che, sia durante il giorno che nelle edizioni serali hanno mandato in onda il concerto di Bruce Springsteen, qualche domanda me la sono fatta. Nulla da togliere al Boss, ma qualcosa da aggiungere a David.
Anche su internet sono pochissimi gli articoli riguardanti il concerto di Gilmour, che mi sento in dovere di raccontare, partendo dall’atmosfera: il Circo Massimo è suggestivo e l’artista ha sfruttato bene la location.
Alle 21 spaccate Davidone sale sul palco senza presentazioni, giochi di luce o suspense musicale. Inizia con tre canzoni estrapolate dal suo ultimo album solista “Rattle that Lock“, forse aspettando il momento perfetto del tramonto, per Wish You Were Here: la canzone probabilmente più famosa dei Pink Floyd, che uno si aspetta verso la fine del concerto, è invece la quarta della scaletta e la scelta è più che azzeccata. La luce arancione del crepuscolo, il riff della chitarra e il Circo Massimo in silenzio, caricano l’aria di emotività e non ci si può non commuovere.
Dopo questo breve (ma intenso) viaggio interiore, David prosegue con le musiche del suo vecchio gruppo, tant’è vero che ce ne sono in maggioranza. Lui sa che i suoi ultimi album da solista non hanno avuto un grandissimo successo e che il modo migliore per far star bene gli spettatori, è quello di rispolverare perle come One Of These Days. Le musiche di quest’ultima, della prima parte di Shine On You Crazy Diamond, High Hopes e molte altre, vengono accompagnate dai video ufficiali. Tutti psichedelici, à la Floyd. Alcuni non li avevo mai visti, probabilmente perché, come mi ha detto babbo, “Te non c’eri nell’88 a vedere i Pink Floyd!” (Grazie per avermelo ricordato ma, sai com’è, non ero ancora nata).
Per i più intenditori, David ci regala Fat Old Sun, da Atom Heart Mother classe 1970.
Verso la fine del concerto, indossa un paio di occhiali da sole e parte Run Like Hell: la gente impazzisce, si alza sulle sedie, non rispetta più i posti e vola sotto il palco (me compresa). Dopo, tutto si abbuia. Davidone esce di scena e prima del bis si fa attendere, sente le persone che urlano il suo nome. Si sente un ticchettìo, l’inconfondibile inizio di Time, ed ecco che i musicisti tornano sul palco. Per chiudere in bellezza, Comfortably Numb.
A settant’anni, Gilmour suona per quasi tre ore. La vasta scaletta, composta per lo più da composizioni floydiane, ha riportato indietro nel tempo gli adulti che hanno avuto la fortuna di vivere il periodo in cui era ancora possibile assistere ai concerti dei Pink Floyd e ha dato, ai giovani come me, un assaggio di quello che hanno provato i nostri genitori ai live del gruppo.
Non parlare in tv di un concerto così e, soprattutto, di un personaggio così importante della storia della musica, è un po’ degradante; ne parliamo noi non vi preoccupate.
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