L’immortalità dei King Crimson in 180 minuti
Da brava fan prog quale sono, quando babbo mi ha chiesto: “Ti va di venire a vedere i King Crimson l’8 Novembre?” non ho potuto rifiutare.
Non sapevo cosa aspettarmi, in realtà nemmeno mi sembrava troppo reale. Dopo l’imprinting che ho avuto con i King Crimson nella fascia di età tra i 5 e i 10 anni, mi sono sempre sembrati un’entità astratta. Essendo una pietra miliare della storia della musica, non potevo che esserne suggestionata.
Dal 1969, anno dell’uscita di “In The Court of The Crimson King”, il gruppo, con Robert Fripp come punto cardine, dà vita a quel filone che sarà definito progressive. Tra l’altro, sono gli unici che sperimenteranno questo genere seguendo le varie linee di tendenza che cambieranno con il passare degli anni.
L’8 Novembre sono al Teatro Verdi di Firenze e vedo le pareti tempestate di cartelli in cui è scritto che si proibisce l’uso di qualsiasi apparecchio elettronico che possa fare foto o video, essendo un Phone free event. Idea alternativa e interessante. Solo alla fine del concerto, quando Tony Levin ci farà una foto, potremo tirare fuori i nostri aggeggi elettronici, creando il solito muro di schermi come ormai succede in ogni evento.
Sul palco le posizioni (provocatorie) degli strumenti preannunciano quello che sarà lo spettacolo (tre batterie in primo piano, una pedana sulla quale troviamo Fripp a sinistra, Jakko Jakszyk e Tony Levin al centro e Mel Collins a sinistra, circondato dal plexigas): un concerto statico, senza effetti speciali, le luci quasi sempre fisse, per concentrare lo spettatore solo ed esclusivamente sulla musica e farsi trascinare nel mondo del Re cremisi.
Il tutto inizia con un assolo dei tre batteristi ( Pat Mastellotto, Bill Bruford e Gavin Harrison) che in realtà è una vera partitura scritta, utile per mettere in risalto le differenze sonore dei tre strumenti. Finito l’intro, il gruppo parte con Picture Of a City, aggressiva e sferzante che ci conferma la tipologia di concerto a cui stiamo assistendo: musica praticamente al servizio delle batterie, che creano incastri perfetti con le loro ritmiche, dando la sensazione che tutto quello che stiamo ascoltando sia prodotto da un unico strumento.
Nella prima parte del concerto, di ben novanta minuti, ci sono perle come Epitaph, The Letters, Sailor’s Tale, Easy Money, In The Court Of The Crimson King e Larks Tongue in Aspic Part.2.
Dopo la pausa, si riparte con una citazone di Lizard e si conclude con Starless, famosissima ed amata dal pubblico. Per la prima volta dall’inizio del concerto, le luci cambiano colore, facendo sprofondare i musicisti e il palco in un rosso cremisi.
Il gruppo suona in totale per tre ore, lasciandoci a bocca aperta.
Durante tutto il concerto il pubblico è in silenzio, assorto, imbambolato, quasi perso in questo vero e proprio viaggio, e si risveglia con il bis: il suono meccanico, che ha quel qualcosa di industriale, e la folla è già in delirio; 21st Century Schizoid Man, classe 1969, è il simbolo dell’immortalità dei King Crimson. Musicalmente e tematicamente attuale, è la conclusione perfetta per questa immersione in suoni sperimentali che si adattano a tutte le epoche, presi e ripresi, studiati, copiati. Ma ciò che li rende senza tempo, è anche il modo di porsi con il pubblico; apparsi dal nulla (si fa per dire) hanno suonato, immobili nelle loro posizioni, senza avere un contatto diretto con il pubblico, come se non fossero davvero lì, ma evanescenti. Ci hanno accolti in silenzio e resi partecipi della loro musica senza troppi giri di parole (anzi, nessuna), trascinati, raggirati, spinti nel loro universo, come se volessero dirci:” Come to the Crimson Side”.
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