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Mr. Brown: Da Babylon a Zion passando per Genova

Lester Bangs, la quintessenza del giornalismo musicale, ammetteva di nutrire una spiccata passione per la musica reggae, pur non amandone particolarmente il massimo esponente, un certo Robert Nesta Marley, detto Bob. Bangs, tuttavia, si spinse fino in Giamaica per realizzare un’intervista all’icona della cultura rasta e per osservare da vicino lo scenario che ha dato origine a tanti generi e sottogeneri così amati nel cosiddetto “Primo mondo”. Dal Roots reggae al Raggamuffin, dalla dancehall all’hip-hop, dal rap al dub…In questa fitta selva di espressioni musicali il neofita fatica a orientarsi.

Mi presento quindi alquanto sprovveduta all’appuntamento con il “mio” reggaeman genovese, che deve raggiungermi alla stazione di Savona nel tardo pomeriggio. A dispetto del mio largo anticipo, mi telefona per avvisare che tarderà di circa mezz’ora. 

Per un attimo ripenso a Lester Bangs in Giamaica e al modo in cui descriveva la ‘rilassatezza’ tipica degli autoctoni: ” ‘Torno fra tre quarti d’ora può tradursi in un lasso di tempo da tre a sei ore e ‘Ci vediamo oggi pomeriggio’ può significare domani sera o mai”[1] , ma ripiombo prontamente con i piedi per terra. Non mi trovo a Kingston e il mio interlocutore non è Bob Marley (e, neanche a dirlo, io non sono Lester Bangs). Il malcapitato, come mi dirà di lì a breve, ha semplicemente perso il treno. Dopo una quarantina di minuti mi viene incontro scusandosi per il ritardo. Ci incamminiamo verso il centro, iniziando a chiacchierare del più e del meno.

Mr. Brown, Daniele Raso all’anagrafe, ha trentaquattro anni e vive alla periferia di Genova nel cosiddetto CEP, “Un mix tra un quartiere popolare e un paesotto di campagna” mi spiega. Ed è in questo quartiere che Daniele inizia ad accostarsi alla musica, passando attraverso l’arte di strada: “A undici anni mi piaceva disegnare, poi durante le scuole superiori andavo di moda i graffiti e i murales, così ho iniziato a fare quello. Da lì mi sono accostato all’ambiente hip hop. In seguito, dato che come writer ero un “fallito” perché avevo paura di andare a dipingere sui muri, ho optato per qualcosa che potessi fare e alla fine mi sono avvicinato al rap. Lì è cominciato tutto. Prima l’hip hop nel ’98 circa e poi il rap nel ’99. Fino al 2001, quando ho sentito per a prima volta il raggamuffin. Ho abbracciato definitivamente questo stile nel 2003”.

Intuisco, sin dai primi minuti di conversazione, che forse è il caso di partire dall’ABC e Mr Brown, incalzato dalla mia necessità di chiarimenti sulle varie contaminazioni che compongono il suo background, non esita a darmi un’infarinatura generale, spiegandomi i rudimenti del mestiere:”Il rap, la tecnica di rimare sulle basi, è la cosa più semplice sulla carta, ma una delle più difficili da fare. Così come il reggae, che è costruito su pochissimi accordi, in genere due o tre (quattro quelli più sofisticati). Però, nonostante ciò, senti poca gente che suona bene il reggae, che tiene bene il levare, eppure è costruito su poche note. Lo stesso è il rap. Molti cantanti credono sia una scemata ma incastrare le rime è un’arte. È fare musica ma è una scuola diversae per giunta devi avere un grande senso del ritmo. Per non parlare dei testi..Negli anni ’90 i rapper facevano testi molto belli, ora parlano solo di sesso e di droga e per giunta in modo banale. Io credo che quando non c’è il messaggio non c’è neanche l’arte e il risultato è una cosa sterile e fine a se stessa.”.

Addentrandoci nella discussione, è impossibile non notare come Daniele abbia dedicato anima e corpo alla propria passione, esplorando da cima a fondo questo universo musicale che, per chi è cresciuto a pane e rock come la sottoscritta, risulta un sottosuolo misterioso e affascinante.

“Il reggae-mi spiega– è diviso in varie sottofamiglie, come il roots reggae, il dub e il raggamuffin, per citarne alcuni. Ma tutto fa parte della grande famiglia dancehall. La dancehall è una festa che si faceva in Giamaica. Siccome non c’erano i soldi, verso la metà degli anni ’60, ma anche prima, i dj mettevano nei ghetti questi sound system e facevano a gara fra di loro, ma le facevano sul serio perché si andavano a sparare nelle casse. C’era chi suonava il disco migliore e chi parlava sopra ai dischi. Da lì nasce tutto, anche l’hip-hop. L’inventore dell’hip-hop, Kool Herk, aveva portato dalla Jamaica questo stile. Arrivato a New York, la prima cosa che ha fatto è stata costruirsi un sound system e mettere musica nei ghetti del Bronx. Poi Africa Bambaataa ha dato un nome a questa cosa e l’ha chiamata hip hop e ha unito altre discipline di strada, ovvero la break-dance, il writing, l’MC il parlare sui dischi e cantare e lo scratch. I rapper -prosegue- vengono chiamati MC, maestri di cerimonia, perché in origine erano degli intrattenitori, che poi hanno trovato nella rima un modo per comunicare più efficacemente. La nascita è stata non tanto politica, quanto ludica e sociale, per levare i ragazzi dalla strada”.

Daniele è un fiume in piena quando trova un appiglio per le sue delucidazioni storiche e dimostra una cultura musicale (e non solo) che fa vacillare i miei pregiudizi sui vari rapper e rastaman che costellano il panorama italiano.”Leggo molto“- mi dice e mi confida di avere anche altri interessi, come la meditazione, lo yoga e la filosofia. Mi accorgo che non sta millantando e che potremmo tranquillamente metterci a disquisire sulla Repubblica di Platone senza troppe difficoltà, ma -dato che non voglio far perdere l’ennesimo treno al mio interlocutore- rientriamo velocemente nel seminato e avendo di fronte a me un artista che porta nel nome il chiaro riferimento a una canzone di Bob Marley, è inevitabile parlare di colui che, almeno sulla carta, resta un’icona universale fra i cultori del genere: “Bob Marley è quello che ha diffuso il reggae in tutto il mondo. Mette tutti abbastanza d’accordo- mi conferma deciso- anche se poi ci sono gli appassionati di Peter Tosh. Alla fine Bob Marley è un’icona riconosciuta perché io adesso ascolto il reggae è proprio grazie a lui. Quando ho visitato la tomba di Marley in Giamaica sembrava di essere sulla tomba di Padre Pio; dovevi toglierti le scarpe e il cappello e non si poteva filmare. Era un rito sacro. Quello che lascia perplessi, sono tutte le contraddizioni dei cosiddetti rasta. Marley, ad esempio, non si è fatto operare quando era malato perché non voleva ledere il suo corpo, essendo un rasta. Poi vedi in Italia tanti rasta con i piercing e magari anche il tatuaggio maori. Se metti insieme questi simboli con consapevolezza va bene…se no sei ridicolo”.

La cultura rasta è invece reinterpretata in modo personale ma con estrema cognizione di causa nell’album di Mr.Brown Crazy Babylon (Isa Record 2015), un cd interamente realizzato fra le mura domestiche, dove Daniele ha peraltro messo in atto le sue fini capacità di tecnico audio. In questo lavoro spicca, nondimeno, uno stile diretto e incisivo e la capacità di affrontare diverse tematiche in modo semplice ma non banale. “I temi che tratto nelle mie canzoni sono la società e l’uomo- mi racconta- amo il punto di vista introspettivo e poi cerco di guardare le follie di questa società, che sono anche le mie follie, perché la società è uno specchio di noi stessi. A me non piace fare quello che giudica, quello che dice: il mondo è sbagliato. Il Mondo è sbagliato perché anche io fondamentalmente ho delle radici nel male, dentro di me. Io parlo di questo, di questa follia collettiva che è sia interna che esterna a noi. Per farlo uso i termini da rasta, Babylon e Zion. I rasta credono che la prima Babilonia sia la Giamaica, la seconda l’Inghilterra, mentre Zion per loro è l’Africa, il ritorno all’Africa. Secondo me invece Babylon è la follia e Zion è la tua parte più profonda. Zion per me non è una città esterna, bensì una città “interna”, un punto interiore di pace. Anche perché non potrei parlare di Zion come ne parlano loro..Ok che veniamo tutti dall’Africa, ma alla fine sono un bianco occidentale, non posso fare il rasta in quel modo. Poi però vedi che certi rasta hanno degli atteggiamenti materialistici..Non c’è artista reggae che non sia zeppo d’oro e che non abbia il macchinone. È una contraddizione. Io adoro il reggae e il rap come comunicazione e come musica, però se mi parli di Babylon e di Zion e poi ti vesti d’oro contraddici te stesso”.

Che il mondo della musica sia pieno di contraddizioni tra messaggi più o meno magniloquenti e personaggi assai più prosaici, non è una novità, ma il mio interlocutore ha le idee chiare in proposito: “Io scindo parecchio l’artista dalla sua arte-mi spiega-un artista può anche non essere coerente con quello che dice, ma se il messaggio è buono, perché non usufruirne? Perché non imparare da quel messaggio? Prendi Bob Marley… Ha avuto diversi figli da donne diverse eppure aveva una sola moglie! Ma la cultura giamaicana è molto maschilista. Io penso che nella vita ognuno può avere comportamenti condizionati da mille fattori, ma nell’opera dell’artista agisce la parte più pura della sua anima”.

Il riferimento a Bob Marley emerge anche sul piano prettamente musicale, quando poco dopo torniamo a parlare del disco.”In Crazy Babylon c’è qualcosa di roots, quindi l’influenza di Marley c’è sicuramente -mi conferma- C’è poi anche qualcosa di dancehall e di raggamuffin. Il mio cd -prosegue- viene fuori da un po’ di dischi che ho fatto a livello underground e, finito l’ultimo lavoro, avevo dei pezzi da parte. Dovevano esserci dodici tracce, poi ogni mese aggiungevo un pezzo in più, infatti ci ho messo due anni a fare questo album, perché ho cambiato quarantasette volte le basi. Io sono un perfezionista, se il lavoro non viene come dico io non lo faccio”.

E il perfezionismo di Daniele evidentemente paga, perché può vantare di aver condiviso il palco con nomi di spicco nel suo ambiente: Sud Sound System, Brusco, Bunna degli Africa Unite, per citarne alcuni.”Anche al mio album -racconta- hanno collaborato artisti davvero bravi della scena locale, come Billy e Zaga, cantante degli Early Vibes e nel prossimo disco la chitarra la suonerà il chitarrista degli stessi Early Vibes. In Crazy Babylon –conclude dal punto di vista strumentale, mi sono limitato solo alle chitarre. In realtà avrei voluto qualche parte strumentale in più. Forse nel prossimo disco ci sarà anche qualche giro di basso”.

La nostra lunga chiacchierata volge al termine ma prima di congedarci gli faccio scherzosamente notare che mi sarei aspettata una chioma di dreadlocks anziché una testa quasi rasata.”Avevo i dreads -mi risponde- e mi mostra fiero una vecchia foto salvata sul telefonino. “Li ho tagliati, ho dovuto.. Ma li ho conservati” aggiunge sorridendo.

Bob Marley forse non sarebbe stato troppo d’accordo, lui che credeva che i dreadlocks tenessero lontani da Babilonia. Ma d’altronde la Giamaica degli anni ’70 di Lester Bangs è assai lontana dalla Genova di periferia del terzo millennio. E forse Daniele, che si tiene distante dalle follie del mondo dedicandosi alla musica e coltivando la sua Zion interiore, è un migliore erede di quella cultura, ormai ridotta -dai piùa nostalgiche rievocazioni stampate su T-shirt e cappellini.

1 Lester Bangs, Deliri, desideri e distorsioni, A cura di John Morthland, Minimum Fax 2006, cit.pag.299

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