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Ex-Otago raccontano l’album: “Lavoriamo con le mani per aguzzare la mente”

È pronto “Marassi” il nuovo album degli Ex-Otago, era pronto da un po’ in realtà, ora è uscito allo scoperto ed è disponibile per tutti. Come dicono i vecchi in questi casi: “Su tutte le piattaforme digitali e nei negozi di dischi!”

“Le piattaforme digitali” viste come un’entità astratta e lontana dal mondo. Noi siamo “ggiovani” e non facciamo queste distinzioni; La cosa bella di fare questo lavoro è poter incontrare gli artisti dal vivo per farsi raccontare da loro stessi quello che hanno creato e gli aneddoti che l’hanno caratterizzato.

Abbiamo avuto l’occasione per far loro qualche domanda insieme ad alcuni colleghi del settore.
Marassi è un quartiere di Genova in cui vivono le memorie degli Ex-Otago, luogo comune fatto di supermercati, palestre, di autobus, con tanto di stadio e carcere.
Realizzato con l’aiuto di Matteo Cantaluppi, produttore che sta spopolando nel cantautorato italiano del momento, “Marassi” è anche un disco pop, che vuole rappresentare il clima del quartiere raccontando la quotidianità dei loro giorni, ma anche un po’ dei nostri.

La presentazione del disco per noi è iniziata nel migliore dei modi: siamo arrivati in ritardo di 5 minuti ma siamo stati accolti in modo in modo scherzoso da Maurizio e dai compagni, ragazzi semplici e senza problemi relazionali con le altre persone (vedi Dylan).

Partiamo con qualche domanda?

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In che modo Matteo “C-loop” Cantaluppi è stato definitivo nella realizzazione dell’album?
Matteo ha un’impronta ben definita, l’abbiamo fortemente voluto perché sapevamo che la direzione che stavamo prendendo stava andando verso il suo genere. Lui ha accolto il nostro invito ed ha caratterizzato ulteriormente il nostro album. Come se fosse un componente degli Ex-Otago, non ha preso una “posizione” che fosse distante, riuscendo a tradurre il nostro mondo forse più elettronico rendendolo armonico e fruibile. Il fatto che parlasse di “noi” come gruppo ci ha fatto sentire a nostro agio fin da subito, era parte integrante del gruppo

 

Nella tracklist, quale delle canzoni rappresenta di più il concetto di Marassi?
“Cinghiali Incazzati”, perché rappresenta meglio tutte quelle maschere che ci portiamo addosso e che facciamo fatica a far convivere. Marassi rappresenta tante facce che non riescono ad emergere per paura, consuetudine, perché “non si fa”.

 

L’Italia di oggi risuona nel disco?
Sì, quando scriviamo nel presente è inevitabile. Marassi si trova a Genova ed è un quartiere, ma è mille altri quartieri ed è mille altre città. Lo stadio, il carcere, i grandi condomini e le palestre di zoomba sono rappresentativi nel nostro paese.

 

Genova è al centro del vostro album. Che rapporto avete voi con la vostra città?
Siamo affezionati a Genova. Ci piace l’idea di vivere ancora lì. Si dice che sia una città annoiata, ma quanto più si scava tanto più si trova gente che ha voglia di fare.
È una città che segna, che riesce a mettere insieme tante armonie, tante architetture.

Nel disco c’è un suono rivolto più all’estero che all’Italia. La realizzazione di un genere più internazionale è stata una scelta razionale?

Non c’è stato un vero e proprio piano. Avevamo questa direzione, e con Matteo e le sue conoscenze abbiamo realizzato questo album, senza decidere in precedenza in quale direzione andare. Ovviamente quello che ascolti durante la stesura di un disco si riversa in quello che scrivi, ad esempio abbiamo ascoltato per parecchio tempo “Tycho”, da poco invece mi sono avvicinato al rap italiano, ad esempio in autostrada mentre venivo qui ho ascoltato Willie Peyote e Murubutu.

 

Al di là dei temi specifici che trattate, emergono due linee, da una parte c’è la pragmaticità e la concretezza della vita quotidiana, dall’altra parte c’è la linea del sogno, dell’ambizione che continua a sopravvivere. Unire questi due aspetti rappresenta un po’ quel coraggio descritto nell’ultima traccia del disco?
In generale c’è sempre una nota molto concreta. In quanto autore di testi sento il bisogno di abbandonare il lavoro intellettuale fine a se stesso. Credo nel lavoro intellettuale abbinato al lavoro manuale, come dice un vecchio detto lavorare con le mani aguzza la mente. D’altra parte serve anche l’ambizione, se si riesce ad unire questi due mondi si riesce a fare qualcosa di interessante. Si deve osare, e per osare c’è senz’altro bisogno di coraggio.

 

Sembra che nei testi si parta con la descrizione di quello che succede intorno per poi arrivare a parlare dei vostri stati d’animo, quindi è una cronaca finalizzata a guardare dentro voi stessi, siete d’accordo?
È proprio così, scrivo di me con i riflessi che arrivano dai miei compagni anche per questione di onestà. Scrivo perché lo sento in prima persona. Ad esempio “La nostra pelle” parla di me e di noi.

 

Sul palco vi siete già organizzati con la strumentazione?
Ci stiamo organizzando con nuovi strumenti, che non sono più le classiche yamaha. Dobbiamo studiare molto e prepararci bene, al posto del  Charango e dei sax,ci saranno dei sintetizzatori, campionatori,  e ci sarà molto spazio per la chitarra elettrica.”

 

Il vostro genere è si avvicina molto all’indie britannico. Avete mai provato a scrivere qualcosa in inglese?
Abbiamo già scritto in inglese, ma al momento non ci stiamo pensando. Il testo per noi è molto importante, per come intendiamo noi la canzone è importante che l’ascoltatore capisca per direttissima. In ogni caso pensiamo che questo sia il momento in cui le barriere tra musica internazionale e musica nazionale si infrangano, e a dirla tutta il mio inglese non è proprio..

 

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